Disastro Accoglienza
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A 20 anni dallo Sprar

Il 70% dei richiedenti asilo è accolto in Italia nei centri straordinari in condizioni indegne di un Paese civile. Come documentano alcuni video fino ad oggi inediti pubblicati da TPI. Da due anni il ministero dell’Interno non consegna i dati dei gestori al Parlamento. Mentre crescono i guadagni delle coop e la loro opacità.

A Nettuno, in provincia di Latina, all’interno del centro di accoglienza per richiedenti asilo gestito dalla cooperativa Eta Beta, la stessa coop che a Roma qualche anno fa aveva lasciato per mesi i lavoratori e le lavoratrici senza stipendio e che gestisce oggi anche altre strutture in Abruzzo, ad un certo punto, per diverse settimane non era stata raccolta nemmeno la spazzatura, come mostrano alcuni video esclusivi ottenuti da TPI. Le condizioni in cui si trovavano qualche mese fa gli “ospiti” del Cas Tre Cancelli di Nettuno sono finite messe nero su bianco sulla scrivania del capo dipartimento per le politiche di immigrazione del ministero dell’Interno, il prefetto Michele Di Bari, e dell’attuale prefetto di Roma, Michele Piantedosi, grazie a una segnalazione dettagliata presentata dall’associazione Diritti In Movimento Progetto Pensare Migrante – che ha attivato da diverso tempo un monitoraggio indipendente relativamente ai centri di accoglienza per stranieri. Un esposto a cui l’organizzazione non ha mai ricevuto alcuna risposta dai funzionari interpellati, nonostante le gravi criticità evidenziate. «Qui dentro sono ospitate tuttora circa 100 persone, tutti uomini adulti, di varie nazionalità, con soli otto bagni e altrettante docce che funzionano e con la presenza soltanto di due operatori che fanno un turno di lavoro ognuno da dodici ore», si legge nel carteggio.
«I beneficiari stranieri vivono in sei in una stanza, ognuna delle quali è adibita con letti a castello, così come a loro carico risultano le spese sostenute per il rilascio del permesso di soggiorno».
E ancora: «Per molti di loro l’iscrizione anagrafica è un miraggio, nonostante alcuni vivono a Nettuno
da quattro anni. È un miraggio anche il riscaldamento d’inverno e a volte anche la corrente elettrica d’estate, poiché sono frequenti le interruzioni, che possono durare anche l’intera giornata».
Quando incontriamo Yasmine Accardo, storica attivista dei diritti delle persone migranti e portavoce della
Campagna LasciateCientrare nel bar di un quartiere della periferia est di Roma, il suo cellulare squilla con costanza e dall’altro capo del telefono sono continue le segnalazioni di questo tipo che giungono da parte di richiedenti asilo di ogni nazionalità. Ad Accardo arrivano anche diverse foto e video che mostrano dall’interno le condizioni in cui versano molti centri di accoglienza straordinari, i così detti Cas, dal Nord al Sud dell’Italia, da Caltanissetta a Vercelli. L’attivista ci mostra, ad esempio, l’immagine e le ferite di un cittadino straniero che sostiene di essere stato malmenato più volte con un bastone di ferro per aver denunciato i traffici di droga del gestore di un centro di accoglienza di Licata, in provincia di Agrigento. E poi, riferisce di un altro esposto presentato a carico della cooperativa “La mano di Francesco” dall’avvocata Stella Arena, insieme alla rete antirazzista di Catania, che giace tuttora sulla scrivania del procuratore capo di Agrigento. Nel documento, di cui TPI è in possesso, si rappresenta che «Nel centro denominato “Villaggio Mose” vi è una situazione deprecabile, rifiuti non rimossi, promiscuità tra famiglie con minori, adulti e donne». E si segnala, inoltre, che nel centro si trovano anche alcuni bambini che non vengono iscritti a scuola, donne sole, e persone con disabilità, insieme a quasi 100 uomini adulti.
La maggior parte delle denunce che l’associazione LasciateCientrare ha ricevuto in questi ultimi anni proveniva dalla provincia di Trapani, spiega ancora Yasmine Accardo: «È la stessa provincia che un paio di anni fa deteneva un piccolo record: la più altra presenza di centri di accoglienza straordinari, ventidue, e molti centri ora sono stati chiusi dalla locale prefettura per le condizioni indegne in cui si trovavano».
«L’ultimo esposto che come associazione abbiamo presentato risale al 22 maggio scorso e riguarda proprio un centro per la quarantena da Covid-19 che si trova a Salemi, in provincia di Trapani, un luogo in cui decine di cittadini tunisini sono stati privati della libertà personale, trattenuti per giorni e senza la possibilità di poter richiedere la protezione internazionale», conclude Accardo.

Scarsa trasparenza

Entro il 30 giugno di ogni anno il ministero dell’Interno dovrebbe presentare al Parlamento la relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza al fine di «fronteggiare le esigenze straordinarie connesse
all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale». Un appuntamento, però, che il Viminale manca da due anni. Mentre scriviamo, infatti, ancora non sono disponibili i dati ufficiali relativi al 2020. Una mappa dettagliata dei centri con l’indicazione dei posti disponibili nelle strutture, delle presenze, dei prezzi per l’erogazione dei singoli servizi e dei gestori che li erogano, provincia per provincia, l’ha realizzata, nel frattempo, la ong ActionAid, insieme alla fondazione Openpolis. È una piattaforma gratuita,
completamente accessibile online e si chiama Centri d’Italia. «Abbiamo ritenuto di dover elaborare
uno strumento di trasparenza sui dati anche alla luce delle carenze dimostrate in questi anni dalle amministrazioni che governano il sistema», dice a TPI Cristiano Maugeri, responsabile di questo percorso per ActionAid Italia: «è una piattaforma che, oltre a rendere pubblici e fruibili dati essenziali,
colma un vuoto di conoscenza, e che si accompagna a una serie di rapporti sul sistema di accoglienza che la nostra organizzazione pubblica ogni anno, dal 2018, ormai». Dati recentissimi relativi al novembre 2021, raccontano – evidenzia Maugeri – «come quasi il 70 per cento dei richiedenti asilo in Italia sia ancora ospitato nei centri di accoglienza straordinari gestiti dalle prefetture e, di conseguenza, lo scarso uso che
i comuni fanno del sistema ordinario, lo Sprar/Sai». Di più. Nel report “La sicurezza dell’esclusione” pubblicato a puntate tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, sostiene Maugeri: «la disponibilità dei dati raccolti ha permesso di comprendere come la configurazione del sistema di accoglienza voluta dal primo governo Conte abbia trovato terreno fertile nella Capitale, con l’effetto di relegare in megastrutture oltre l’80 per cento dei richiedenti asilo presenti sul territorio. Altri effetti si sono avuti sui gestori, con l’estromissione di piccoli soggetti a vocazione sociale, fino al concretizzarsi di tendenze monopolistiche». Maugeri si riferisce alla cooperativa Medihospes che con il nuovo sistema di accoglienza voluto dal governo giallo-verde per «fermare il business dell’immigrazione», ha visto, visura camerale alla mano, triplicare i suoi ricavi, ottenendo dalle prefetture italiane qualcosa come 20 milioni di euro soltanto in un anno, il 2018. Una holding del sociale, Medi Hospes, che si occupa anche dell’assistenza agli anziani, ai disabili, ai minori, la cui crescita è stata esponenziale negli ultimi anni, con il fatturato complessivo dell’azienda che è passato dai 42 milioni del 2016 ai 114 del 2018. Cifre alla mano, sempre Maugeri rivela
che «a Roma, su 994 posti disponibili nel sistema d’accoglienza straordinaria, nel 2019 e nel 2020, 879 erano in mano ad un solo gestore e le persone erano ospitate in sole 4 strutture». E poi conclude: «viene da chiedersi come la Prefettura di Roma abbia consentito e avallato tutto ciò».

Una riforma necessaria

Eppure, le proposte della società civile per migliorare le disfunzioni di questo sistema non mancano. Sono state spiegate qualche settimana fa in una conferenza stampa dal Tavolo Asilo Nazionale, rete di organizzazioni di cui fanno parte, tra le altre, A Buon Diritto, Arci, Caritas, Comunità di Sant’Egidio,
Cgil, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Oxfam. Tra le richieste presentate alle istituzioni, vi è proprio il superamento dei centri straordinari, perché, si legge infatti nel documento presentato: «gli attuali schemi di capitolato di gestione dei Cas adottati dal Ministero dell’Interno premiano paradossalmente le strutture di grandi dimensioni e la riduzione degli standard di accoglienza».
È uno dei paradossi italiani, sostiene il giurista Gianfranco Schiavone, che il modello dell’accoglienza di qualità l’ha inventato, a Trieste, ormai vent’anni fa. Ricorda Schiavone: «Alla fine di luglio del 2002 nasceva lo Sprar, concepito come un modello di accoglienza diffusa ed integrata che nelle intenzioni avrebbe dovuto garantire il rispetto per i diritti fondamentali delle persone accolte e facilitare il processo di inclusione sociale degli stranieri». I fatti, però, raccontano qualcosa di diverso. «Quando l’Italia nel 2005 recepì la Direttiva 9/2003/CE sulle norme minime in materia di accoglienza, si perse una grande occasione. Perché il legislatore non scelse lo Sprar quale suo sistema privilegiato, bensì optò per il modello binario». Sempre secondo quanto afferma Schiavone: «Oggi, a vent’anni di distanza, si continua ad alimentare questo sistema binario, incentivando proprio ciò che bisognerebbe invece depotenziare
e infine superare, le grandi strutture di accoglienza che sono generatrici di ghettizzazione e di disagio sociale, in molti casi anche incubatrici di malaffare».
A queste distorsioni del sistema, poi, se ne aggiunge una ulteriore: il sistema di adesione dei comuni allo Sprar rimane su base volontaria. Così, i sindaci e le amministrazioni di alcune regioni storicamente a trazione leghista, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto ne hanno attivati di pochissimi, negli ultimi vent’anni.

Chi non entra

Un’altra nota dolente di un sistema che appare un disastro è la cronica mancanza di posti in accoglienza per chi ne ha diritto. Ad ammetterlo in una lettera rivolta alla onlus Sanità di Frontiera, è la vice-prefetta di Roma, Daniela Caruso. Così scrive la funzionaria: «In relazione all’istanza di protezione internazionale presentata e alla richiesta di accoglienza inviata a questa Prefettura, si informa che l’accoglienza
presso le strutture governative Sai e Cas, a fronte di una critica mancanza di disponibilità di posti in tutto
il sistema, viene effettuata seguendo le priorità affidate alla valutazione del Ministero dell’Interno e del Prefetto competente». Caruso, in ogni caso, invita gli operatori legali che seguono «le situazioni di indigenza e di vulnerabilità dei richiedenti non accolti», a rivolgersi presso i servizi sociali territoriali dei
Comuni della Provincia di Roma. Uno scaricabarile, insomma. La conferma ulteriore di questa situazione di mancata accoglienza anche per i vulnerabili, come le donne sole, si trova nelle centinaia di diffide e ricorsi che TPI ha letto e che sono stati presentati negli ultimi mesi dall’associazione Pensare Migrante e dalla onlus Sanità di Frontiera, che riguardano in particolare persone di nazionalità somala. Mattia Gregorio è un operatore legale della onlus Sanità di Frontiera e racconta di aver intercettato negli ultimi mesi decine di richiedenti asilo di nazionalità somala che vivono accampati nei pressi di un giardino adiacente alla
stazione Termini. «Alcuni sono arrivati a chiedere consulenza al nostro sportello in pessime condizioni psico-fisiche, lamentando ad esempio problemi respiratori», rivela Gregorio. «Tra di loro c’era un uomo, Zakaria, affetto da una grave forma di diabete, che aveva chiesto nel novembre del 2021 asilo alla questura di Roma e che è rimasto in attesa che gli venisse assegnato un posto in accoglienza fino al febbraio del 2022 Nel frattempo aveva dormito inuna macchina nei pressi della stazione
Tiburtina».
Dunque, nonostante l’articolo 1, co. 2 del d.lgs. n. 142/2015 preveda che le misure di accoglienza per i richiedenti asilo devono inderogabilmente essere attivate «dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale», sempre più spesso ciò non accade, e non soltanto
a Roma. A Siena, per esempio. Il presidente dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) Lorenzo Trucco, ha scritto una lettera alle istituzioni locali, lo scorso 30 giugno, lamentando che la Questura senese non consenta «l’accesso alla procedura ad un gruppo di cittadini
stranieri di nazionalità pakistana che si presenta quotidianamente presso l’Ufficio». Persone che oggi continuano a vivere in strada, in precarie condizioni sanitarie, nonostante abbiano il diritto
di essere accolte. Oltre al danno per chi viene accolto in questo modo nel sistema di accoglienza,
però, c’è anche la beffa per chi lavora nel settore al servizio dello Stato. A riferirlo è una lettera scritta dal Coordinamento dei Mediatori Interculturali d’Italia dalle Camere del Lavoro Autonome e Precarie di Roma e indirizzata al Viminale, in cui si legge: «Il 30 giugno dagli uffici del Ministero dell’Interno ci hanno comunicato l’improvvisa e immediata sospensione del servizio di mediazione interculturale. Dal primo
luglio circa 300/350 colleghe e colleghi sono rimasti a casa e da allora non si ha nessuna indicazione sulla eventuale riattivazione del servizio».
Si tratta dei mediatori interculturali che supportano i funzionari pubblici nelle attività di orientamento, d’informazione, di accoglienza, di traduzione, di interpretariato, di mediazione linguistico-culturale e di sensibilizzazione. Ma di migliorare i servizi di accoglienza per gli stranieri, evidentemente, a questo Stato non interessa.

GAETANO DE MONTE – TPI

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